Jean Cocteau, poeta, pittore, surrealista, artista a tutto tondo emblematico del novecento nel suo ultimo film (che per l'appunto è il suo testamento) tira le somme di una carriera, si mette in primo piano (è lui il protagonista, interpretando se stesso) e affronta il ruolo del poeta (o dell'artista si potrebbe dire) nella modernità, mettendo nel film anche molti altri artisti dell'epoca, su tutti è riconoscibilissimo Picasso.
Impegno non facile che però Cocteau risolve con ragionevolezza, continuando a puntare su quelle che da sempre sono le sue ossessioni: l'aldilà, il doppio e lo straniamento.
Girato in una maniera che risente molto delle mode del momento (è il 1960, l'anno prima sono usciti Fino All'Ultimo Respiro e I 400 Colpi e Truffaut ha aiutato a produrre il film (e nella prima scea c'è Jean-Pierre Leaud un po' più grande di com'è ne I 400 colpi e un po' più piccolo di com'è in Antoine e Colette)) in modo da palesare in ogni momento la mano di un autore, di un demiurgo che manipola il girato per rivoltarlo a suo piacimento, il film si bea di se stesso e in una costante tensione all'allusione ed alla metafora raggiunge il suo acmè nel momento in cui Cocteau incontra se stesso.
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