Il secondo lungometraggio di Wes Anderson è un poema tenero e infantile sul contrasto delle età e (chiaramente) sulla paternità (sia essa effettiva, assente o mancata).
In Rushmore c'è tutto il cinema che seguirà di Anderson, sia tematicamente (I Tenebaum) che formalmente (Steve Zissou), con un gusto particolare per la descrizione della devastante normalità di figure atipiche.
Questa volta il protagonista è un ragazzo talentuoso, pieno di interessi e volontà innamorato della propria scuola e delle possibilità che gli dà. Presidente e fondatore di mille organizzazioni nonchè drammaturgo e commediografo, la sua insaziabile sete di crescita (fisica e culturale) si scontra unicamente contro l'impossibilità di avere una storia d'amore con una donna più adulta.
Outsider di lusso, nerd pieno di possibilità e di volontà il protagonista è come spesso si vede in Anderson genialmente fuori dal mondo e grande innovatore.
Eppure mi sembra sempre che nei film di Anderson le cose più interessanti siano quelle meno particolari. Di tutte le mille piccole chicche, stranezze e originalità di cui riempie i suoi film alla fine ciò che mi rimane sempre impresso (e delle volte con una forza non indifferente) sono le cose più consuete. I sipari che si aprono e si chiudono, lo scorrere delle stagioni, gli sguardi pieni d'amore, quelli pieni di delusione, i picchi e le rinascite.
A fronte di forme che cercano disperatamente di discostarsi dal già visto e dal già narrato ad un livello di superficie (perchè poi sotto i metodi di narrazione sono molto più canonici di quel che sembri) c'è poi una narrazione di meccanismi veramente basilari come l'affetto paterno, la volontà di crescere o di non crescere (se si è cresciuti) e la ricerca disperata di una felicità che ormai è già perduta.
In Rushmore c'è tutto il cinema che seguirà di Anderson, sia tematicamente (I Tenebaum) che formalmente (Steve Zissou), con un gusto particolare per la descrizione della devastante normalità di figure atipiche.
Questa volta il protagonista è un ragazzo talentuoso, pieno di interessi e volontà innamorato della propria scuola e delle possibilità che gli dà. Presidente e fondatore di mille organizzazioni nonchè drammaturgo e commediografo, la sua insaziabile sete di crescita (fisica e culturale) si scontra unicamente contro l'impossibilità di avere una storia d'amore con una donna più adulta.
Outsider di lusso, nerd pieno di possibilità e di volontà il protagonista è come spesso si vede in Anderson genialmente fuori dal mondo e grande innovatore.
Eppure mi sembra sempre che nei film di Anderson le cose più interessanti siano quelle meno particolari. Di tutte le mille piccole chicche, stranezze e originalità di cui riempie i suoi film alla fine ciò che mi rimane sempre impresso (e delle volte con una forza non indifferente) sono le cose più consuete. I sipari che si aprono e si chiudono, lo scorrere delle stagioni, gli sguardi pieni d'amore, quelli pieni di delusione, i picchi e le rinascite.
A fronte di forme che cercano disperatamente di discostarsi dal già visto e dal già narrato ad un livello di superficie (perchè poi sotto i metodi di narrazione sono molto più canonici di quel che sembri) c'è poi una narrazione di meccanismi veramente basilari come l'affetto paterno, la volontà di crescere o di non crescere (se si è cresciuti) e la ricerca disperata di una felicità che ormai è già perduta.
2 commenti:
E anche, altro pezzo ricorrente, il formalismo dei dialoghi. E' un pò più che solo humor inglese, qualunque scambio di battute avviene nell'imbarazzo generale, e tutti ci girano attorno le ore.
Che mito.
Tony piange. Io ho impiegato anni a capire l'umorismo di Anderson. Me l'ha spiegato Willem Dafoe.
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