Non mi stancherò mai di ripetere che Mario Camerini è uno dei più grandi geni misconosciuti del nostro cinema, uno dei cineasti più tecniciche abbia mai visto orchestrare un film nel nostro paese e uno dei più delicati narratori.
Penalizzato (forse) dal cinema dei telefoni bianchi e dal dover girare continuamente commedie rosa (ma in molti casi si trattava di scelte precise) Camerini ha attuato in silenzio e senza clamori, una serie di sperimentazioni visive e narrative fuori dal comune.
In particolare Darò Un Milione si apre con un montaggio alternato tra un milionario stanco nel suo yacht e un barbone desideroso di porre fine ai suoi giorni, entrambi meditano di buttarsi nelle medesime acque ma con scopi differenti. Alla fine lo farà solo il milionario per fuggire dalla sua di realtà e tuffarsi in quella del barbone (la vita di indigenza). Ma che rigore nel montare...
Al favolismo zavattiniano del soggetto Camerini (che non aveva buoni rapporti con il soggettista) risponde con una messa in scena rigorosissima e densa di poesia nascosta (e non esibita come è invece uso di Zavattini). Esempio di questo è ancora verso l’inizio del film la scena in cui il giovane milionario che si finge barbone si sveglia in un prato erboso tra panni stesi al sole. La prima cosa che vede è un cane che fa le capriole mentre sente la voce della ragazza destinata (come vogliono i canoni) ad essere la sua amata. Le percezioni dello spettatore si confondono tra le ombre ingannevoli di altre lavandaie dietro ai panni, il cane che fugge e un montaggio che confonde ancora di più come se ci si trovasse in una stanza degli specchi. Una tecnica che sembra mantenere una continuità insperata con il mondo dei sogni da cui il giovane barbone milionario dovrebbe essersi destato, cosa che personalmente ho ritrovato in un altro solo film girato almeno 10 anni dopo cioè Scala al Paradiso (il risveglio in spiaggia).
In particolare poi, per gli amanti della lotta ai regimi, Darò Un Milione cambia ambientazione dall’Italia alla Francia per poter mostrare una diffusa povertà, una meschinità umana non comune nel cinema dei telefoni bianchi e un opportunismo alto borghese che appartiene tutto alla matrice originale, cioè la storia di Zavattini.
Penalizzato (forse) dal cinema dei telefoni bianchi e dal dover girare continuamente commedie rosa (ma in molti casi si trattava di scelte precise) Camerini ha attuato in silenzio e senza clamori, una serie di sperimentazioni visive e narrative fuori dal comune.
In particolare Darò Un Milione si apre con un montaggio alternato tra un milionario stanco nel suo yacht e un barbone desideroso di porre fine ai suoi giorni, entrambi meditano di buttarsi nelle medesime acque ma con scopi differenti. Alla fine lo farà solo il milionario per fuggire dalla sua di realtà e tuffarsi in quella del barbone (la vita di indigenza). Ma che rigore nel montare...
Al favolismo zavattiniano del soggetto Camerini (che non aveva buoni rapporti con il soggettista) risponde con una messa in scena rigorosissima e densa di poesia nascosta (e non esibita come è invece uso di Zavattini). Esempio di questo è ancora verso l’inizio del film la scena in cui il giovane milionario che si finge barbone si sveglia in un prato erboso tra panni stesi al sole. La prima cosa che vede è un cane che fa le capriole mentre sente la voce della ragazza destinata (come vogliono i canoni) ad essere la sua amata. Le percezioni dello spettatore si confondono tra le ombre ingannevoli di altre lavandaie dietro ai panni, il cane che fugge e un montaggio che confonde ancora di più come se ci si trovasse in una stanza degli specchi. Una tecnica che sembra mantenere una continuità insperata con il mondo dei sogni da cui il giovane barbone milionario dovrebbe essersi destato, cosa che personalmente ho ritrovato in un altro solo film girato almeno 10 anni dopo cioè Scala al Paradiso (il risveglio in spiaggia).
In particolare poi, per gli amanti della lotta ai regimi, Darò Un Milione cambia ambientazione dall’Italia alla Francia per poter mostrare una diffusa povertà, una meschinità umana non comune nel cinema dei telefoni bianchi e un opportunismo alto borghese che appartiene tutto alla matrice originale, cioè la storia di Zavattini.
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