Se fossi uno straniero dalla media conoscenza cinematografica internazionale e mi facessero vedere Gli Amici Del Bar Margherita penserei subito che l’Italia è rimasta ancora vittima del modo di procedere felliniano senza però che sia presente anche quella forza dirompente, senza che ci sia ancora quell’incredibile coraggio d’osare.
Tuttavia non essendo straniero ma italiano e conoscendo da italiano il cinema contemporaneo non solo so che non siamo vittime dell’imponente retaggio felliniano ma anche che le somiglianze evidenti tra l’approccio al ricordo bolognese di Avati e quello al ricordo riminese del Federico nazionale è un’eccezione spiacevole che spero avremo tutti il coraggio di ignorare.
Perchè Pupi Avati gioca con i suoi ricordi (e molti degli attori da lui lanciati) tra esagerazione, caratterizzazione, bozzettismo e grottesco senza mai davvero andare a fondo, senza un immaginario degno di questo nome a coprirgli le spalle e riempirci gli occhi, senza guizzi sorprendenti e senza storie realmente interessanti da raccontare ma solo piccole bagatelle e piccoli screzi.
Si direbbe un film corale ma in realtà non è nemmeno questo perchè dalle tante storie raccontate degli avventori del bar Margherita non esce nulla di unico, non si respira un senso comune del vivere bolognese nel 1954, sono solo storie sfilacciate tra di loro e tenute insieme dall’unità di luogo.
Avati è un cineasta particolare, uno che per sua ammissione non va quasi mai al cinema e in generale guarda pochissimi film e che per questo ha tutta una sua idea di cinema dotata di poca originalità e soprattutto sempre uguale nel tempo. Un cineasta quindi proprio per questo motivo fuori dal tempo che ha il pregio di fare un film l’anno ma il difetto di mancare ogni volta l’appuntamento con personaggi e situazioni realmente coinvolgenti.
Giusto per amor di completezza una citazione in chiusura va al senso della pellicola e del cinema avatiano espresso nel finale, cioè quel rifiuto di far parte di una storia per prendersi il lusso di guardarla da fuori, raccontarla per comprenderla. Anche stilisticamente il regista si immedesima con il personaggio del documentarista (spesso le immagini che vediamo sono prese dal punto di vista da cui quel personaggio gira) e dunque contemporaneamente prende le distanze dalla materia raccontata e ne diventa parte integrante. Ma come si diceva lo precisiamo solo per amor di completezza e non per reale interesse.
La cosa che più mi infastidisce è che il film sarà dai più salvato nel nome di non ho capito quali pregi e quali interessanti risvolti di trama.
Tuttavia non essendo straniero ma italiano e conoscendo da italiano il cinema contemporaneo non solo so che non siamo vittime dell’imponente retaggio felliniano ma anche che le somiglianze evidenti tra l’approccio al ricordo bolognese di Avati e quello al ricordo riminese del Federico nazionale è un’eccezione spiacevole che spero avremo tutti il coraggio di ignorare.
Perchè Pupi Avati gioca con i suoi ricordi (e molti degli attori da lui lanciati) tra esagerazione, caratterizzazione, bozzettismo e grottesco senza mai davvero andare a fondo, senza un immaginario degno di questo nome a coprirgli le spalle e riempirci gli occhi, senza guizzi sorprendenti e senza storie realmente interessanti da raccontare ma solo piccole bagatelle e piccoli screzi.
Si direbbe un film corale ma in realtà non è nemmeno questo perchè dalle tante storie raccontate degli avventori del bar Margherita non esce nulla di unico, non si respira un senso comune del vivere bolognese nel 1954, sono solo storie sfilacciate tra di loro e tenute insieme dall’unità di luogo.
Avati è un cineasta particolare, uno che per sua ammissione non va quasi mai al cinema e in generale guarda pochissimi film e che per questo ha tutta una sua idea di cinema dotata di poca originalità e soprattutto sempre uguale nel tempo. Un cineasta quindi proprio per questo motivo fuori dal tempo che ha il pregio di fare un film l’anno ma il difetto di mancare ogni volta l’appuntamento con personaggi e situazioni realmente coinvolgenti.
Giusto per amor di completezza una citazione in chiusura va al senso della pellicola e del cinema avatiano espresso nel finale, cioè quel rifiuto di far parte di una storia per prendersi il lusso di guardarla da fuori, raccontarla per comprenderla. Anche stilisticamente il regista si immedesima con il personaggio del documentarista (spesso le immagini che vediamo sono prese dal punto di vista da cui quel personaggio gira) e dunque contemporaneamente prende le distanze dalla materia raccontata e ne diventa parte integrante. Ma come si diceva lo precisiamo solo per amor di completezza e non per reale interesse.
La cosa che più mi infastidisce è che il film sarà dai più salvato nel nome di non ho capito quali pregi e quali interessanti risvolti di trama.
9 commenti:
ovviamente non l'ho ancora visto e chissà se lo vedrò ma non si può certo non condividere quel che dici in generale sul cinema di Avati...anche le cose immutabili possono avere un loro fascino ma quando è troppo è troppo :-)
si infatti, ci sono registi che rifanno per milioni di volte il medesimo film ma è sempre un piacere, perchè magari i temi girano intorno alle medesime ossessioni ma poi c'è un movimento in avanti stilisco o quantomeno morale...
odio Pupi Avati.
neanche a me fa impazzire anche se forse un paio di film mi sono piaciuti...
a me quasi nulla
la casa delle finestre che ridono? il nascondiglio?
il primo l'ho visto e nonostante goda di successo e apprezzamento conclamato io l'ho trovato assolutamente medio (neanche paragonabile ad Argento). Il secondo l'ho perduto.
ace of spades, che pezzo...
Andate a vedere i singoli incassi per ogni film. Scoprirete che non riescono neanche a coprire le spese di produzione, e allora dico: Sarebbe meglio che ci vada, Avati, al cinema, per capire di più che aria tira, rinnovarsi, aprirsi al pubblico. Perchè da dieci anni almeno è chiuso a riccio, e poi si gasa un po' troppo da quando gli tributano premi assurdi.
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