Il riccio viene da L'eleganza del riccio, nel passaggio da libro a film l'animale che nasconde un'intima bellezza perde "l'eleganza" in cerca di un'indipendenza dall'opera letteraria. Una scelta audace visto il successo dell'opera che ha stimolato la realizzazione del film.
La volontà di trovare una distanza dal libro la si nota in molti dettagli, non ultima la scelta di mutare il diario tenuto dalla protagonista in una sorta di videodiario, un documentario su di sè e la propria famiglia che fa da prologo alle velleità suicide espresse fin da subito. Ci sono un numero di trovate che vengono stimolate da questa sostituzione semantica (nel libro si scrive, nel film si riprende) che mostrano come Mona Achache abbia cercato indipendenza rivendicando il diritto alle proprie scelte, come certi particolari visivi del rapporto della protagonista con la videocamera (ad esempio il fatto che si debba levare gli occhiali ogni volta per riprendere).
Purtroppo però tanto sforzo non è ricompensato adeguatamente. La storia è sostanzialmente scandita secondo tempi letterari e non filmici, anche perchè, nonostante alcune sparute eccezioni (l'abitazione in stile giapponese), poco viene fatto per tradurre in immagini il racconto e molto è lasciato alla parola.
La storia della scoperta da parte di una bambina di un altro possibile universo di vita e del parallelo schiudersi del riccio che rivela a qualcun altro la sua bellezza interiore diventa un percorso sulla fiducia, nel quale cioè lo spettatore deve fidarsi del fatto che una bellezza c'è perchè il film non fa molto per coinvolgerlo realmente nel processo di scoperta o per comunicargli empaticamente tale bellezza.
La volontà di trovare una distanza dal libro la si nota in molti dettagli, non ultima la scelta di mutare il diario tenuto dalla protagonista in una sorta di videodiario, un documentario su di sè e la propria famiglia che fa da prologo alle velleità suicide espresse fin da subito. Ci sono un numero di trovate che vengono stimolate da questa sostituzione semantica (nel libro si scrive, nel film si riprende) che mostrano come Mona Achache abbia cercato indipendenza rivendicando il diritto alle proprie scelte, come certi particolari visivi del rapporto della protagonista con la videocamera (ad esempio il fatto che si debba levare gli occhiali ogni volta per riprendere).
Purtroppo però tanto sforzo non è ricompensato adeguatamente. La storia è sostanzialmente scandita secondo tempi letterari e non filmici, anche perchè, nonostante alcune sparute eccezioni (l'abitazione in stile giapponese), poco viene fatto per tradurre in immagini il racconto e molto è lasciato alla parola.
La storia della scoperta da parte di una bambina di un altro possibile universo di vita e del parallelo schiudersi del riccio che rivela a qualcun altro la sua bellezza interiore diventa un percorso sulla fiducia, nel quale cioè lo spettatore deve fidarsi del fatto che una bellezza c'è perchè il film non fa molto per coinvolgerlo realmente nel processo di scoperta o per comunicargli empaticamente tale bellezza.
5 commenti:
il best seller già non mi era piaciuto, una stronzata, anche un po' manichea e senz'altro furbetta. Ma speravo nel fatto che spesso da un libro mediocre esce un buon film..invece, a quanto dici tu.....
più che altro un filmetto medio, nulla di che proprio
Io invece, pur non avendo letto il romanzo, sono rimasta molto coinvolta.
Ale55andra
recuperato nella sala parrocchiale del quartiere, l'ho trovato molto poetico. seppur non ai livelli del romanzo, che mi piacque parecchio soprattutto per il modo in cui e' scritto, l'ho torvato un film piacevole leggero e colto. i perosnaggi tutti azzeccatissimi, la ragazzina perfetta. mi ha ricordato una certa amelie...
si però come film proprio non scorre secondo me. E pur non avendo io letto il libro ci leggo una scansione letteraria, un modo di procedere che non riconosco come proprio dei film, nè trovo particolarmente efficace nella sua (non)originalità.
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