Lettera di Riccardo Tozzi (Cattleya) parte di un carteggio comparso su Repubblica inerente alla sorte del cinema italiano nell'era del 3D. A parte alcune lamentele e alcune prese di posizione sull'unicità o il protagonismo nostrano in quello che definisce "cinema dell'umano", ci sono delle fantastiche considerazioni da produttore sul cinema nostrano degli ultimi anni e sulla scoperta dell'epica del privato che trovo correttissime.
Le sorti delle principali cinematografie nazionali si sono sempre incrociate con quelle dell’industria americana.
Anche la rinascita che il cinema italiano ha vissuto negli anni 2000 va vista nel confronto con la produzione stunitense. La quota di mercato dei nostri film, è passata dal minimo del 12% di fine anni ‘90 a un massimo del 33, raggiunto nel 2007: sottraendo circa 20 punti ai film americani. In quel periodo la cinematografia americana si è focalizzata su film d’azione con grandi effetti speciali, diretti soprattutto ad un pubblico giovanile e maschile. Ha lasciato così a disposizione del nostro cinema tutta l’area del “cinema dell’umano”. In quella zona il cinema italiano ha saputo istallarsi bene, grazie alla rivoluzione mentale messa in atto a fine anni ‘90: quando abbiamo abbandonato alle spalle vent’anni di cinema
estenuato e autoreferenziale e abbiamo imboccato con decisione la strada della narrazione. Il cinema dell’”epica del privato”, più vicino al genere ma praticato da autori, è stato l’asse portante della nostra rinascita, affiancando il cinema dei comici (rimasto sempre in piedi) e quello più stilistico.
Ma la situazione è rapidamente cambiata nel corso degli ultimi diciotto mesi. All’improvviso, mentre ci godevamo la piacevole sensazione di aver raggiunto una fase stabile di successo, i film italiani hanno cominciato a incassare meno delle attese e quelli americani di più. La crescita della nostra quota di mercato si è fermata nel 2008 e nel 2009 assistiamo all’inversione di tendenza: perdiamo almeno 5 punti (dato provvisorio) a vantaggio degli americani.
Perché? Certamente ha giocato la novità tecnologica, Faenza ha ragione. Il 3D si
è dimostrato un formidabile strumento d’attrazione. Però dobbiamo rilevare che il tipo di pubblico mesmerizzato dal 3D è prevalentemente giovanile e, per composizione, è quello da sempre orientato al cinema americano.
Quindi piuttosto che a uno spostamento di pubblico sembra siamo di fronte a una sostituzione: più pubblico giovanile, prevalentemente maschile e periferico, meno pubblico adulto urbano e prevalentemente femminile. La ragione di questa sostituzione è presto trovata: fino a due anni fa il 60% del mercato era costituito dalle sale urbane e il 40 dalle multiplex. Oggi, a parità di pubblico, la proporzione è inversa. Abbiamo meno pubblico orientato ai nostri film perché abbiamo meno punti vendita per raggiungerlo.
Ma a questa causa di tipo strutturale aggiungerei una concausa, che riguarda i film che facciamo. Non abbiamo più il monopolio dell’umano. Una parte dei nuovi film americani ha più fantasia stilistica e più profondità di contenuti rispetto al passato. Penso, tra i molti, a film come “Into the wild” “Gran Torino” o “Inglorious bastards”: qui non è materia di tecnologia, ma di cinematografia.
Siamo minacciati dunque da due lati: la diminuzione delle sale urbane restringe il nostro pubblico, e la forza di una parte del nuovo cinema americano ci insidia quello che rimane. E questo cinema americano riesce anche a mettere insieme pubblico giovane e vecchio, multiplex e sale urbane. Quindi il nostro problema principale non è il 3D e non lo sono i multiplex. Dobbiamo piuttosto dirigere i nostri sforzi alla ricostituzione di un circuito di sale urbane all’altezza dei tempi. E dobbiamo dare vita, come abbiamo fatto alla fine degli anni ‘90, a un rilancio artistico,
rinnovando i nostri modelli di racconto e ingegnandoci a raggiungere anche un pubblico più giovane. Ci siamo riusciti allora, possiamo farcela oggi.
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