Come sa già chi ha visto Codename: Geronimo, dietro al ritrovamento e all'uccisione di Bin Laden c'è una donna, un'agente della CIA che per diversi anni ha raccolto prove e indizi sul campo (e non) per ottenere sufficienti dati utili a scovare l'uomo più ricercato del mondo.
Zero Dark Thirty dimostra subito come questa storia di una donna forte, potente e determinata nel più maschile dei mondi è ciò che ha spinto Kathryn Bigelow (che vive una condizione simile nel mondo del cinema d'azione e di guerra) a girare questo film. Quasi fosse un atto di politica del cinema, Zero Dark Thirty nel raccontare la sua storia vera si batte per dimostrare che, nella realtà, una dimensione femminile nel mondo della guerra esiste e non somiglia a quella maschile. Ad oggi già Homeland (con molta più finzione) cerca di battere questo percorso, dunque esso deve essere intrapreso anche al cinema.
Per raccontare il complesso intrecciarsi di situazioni, testimoni, interrogatori e difficoltà burocratiche (con il passaggio da un presidente degli Stati Uniti all'altro) Kathryn Bigelow sceglie proprio di partire e finire con Maya, la sua protagonista. Arriva sul campo che è inesperta (e battezzata da un interrogatorio con tortura) e finirà con i massimi onori, tuttavia sarà sempre sola. Sola effettivamente (come nella scena finale, bellissima) e sola metaforicamente (quando nessuno le dà credito o ragione). La sua è un'odissea lunga in un mondo che le appartiene poco, in cui il maschilismo non è mai esposto ma è sempre evidente nelle difficoltà che si presentano, e nel quale lei si muove senza imitare gli uomini.
Se c'è qualcosa che Zero Dark Thirty afferma con forza è la possibilità di un atteggiamento "forte" e determinato da parte di una donna senza bisogno di imitare gli uomini, lavorare sul loro terreno, alle loro regole ma senza imitarli. Eppure la grandezza, umana ed etica di questa regista sta nel dimostrarsi vicina anche al mondo maschile più autentico, come dimostrano le scene di relax dei soldati prima di partire per la missione, un momento di sincera partecipazione, in cui Maya, come sempre è in disparte.
Nella ricostruzione di Kathryn Bigelow, fedelissima alla realtà ma come inevitabilmente sono i film lontanissima da essa, Bin Laden viene trovato con un misto di tecniche di tortura e operazioni sul campo ma soprattutto sono le abilità relazionali di Maya, una testardaggine fuori dal comune e le sue caratteristiche eminentemente femminili a fare la differenza.
Molto si è parlato e molto si parlerà di come gli americani abbiano voluto raccontare (e quindi tramandare, perchè la storia la fanno i vincitori) l'uccisione di Bin Laden, e molto si discuterà sull'opportunità dell'uso della tortura e sulla sua efficacia. Eppure è il tono e lo stile applicato in questo film che rifugge la spettacolarizzazione della guerra o la tensione del cinema (non troppo diversamente da The Hurt Locker, ma in maniera ancora più compassata) che rendono la storia di Maya un'Odissea, cioè un viaggio infinito e rarefatto contro un nemico che sembra non esistere. Così alla fine quello che emerge è soprattutto, la disumana determinazione di una protagonista (della cui vita privata, una volta tanto, non sappiamo niente!) di fronte al mondo degli uomini.
3 commenti:
complimenti per l'analisi di un film e di un personaggio davvero grandiosi.
una pellicola potentissima, molto più e molto altro rispetto al solito thriller antiterrorismo...
Vado un po' controcorrente, ma la scena finale non mi è sembrata "bellissima". Ottimamente girata, come tutto il film del resto, ma anche narrativamente molto banale, un finale visto rivisto e abusato in tanti altri film con lo stesso plot.
Secondo me il film può anche essere abusato ma non il suo tono, che dà tutta un'altra lettura.
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