Inizia sugli addominali sudati di Argentero e sul fisico esile di Valentina Bellè questo film che sembra partire come una storia di riappropriazione dei corpi, come se i 4 carcerati che nello stesso giorno ottengono un permesso di 48 ore e vivranno due giornate diverse, per molti versi separate ma significative, nel tempo passato in galera avessero perso contatto con il proprio fisico, le sue pulsioni, i suoi dolori, la sua decadenza e le sue potenzialità (quando la mitologia del cinema sul carcere vuole l’esatto contrario) e in una finestra di libertà fossero assetati di esperienze fisiche.
Il criminale dal volto duro e la vita disperata di Argentero (per la prima volta davvero in un personaggio senza scampo e senza note serene ma purtroppo ma in grado di dargli anima, nonostante abbia centrato con impressionante determinazione il fisico e il portamento) in cerca di una donna perduta, una prostituta che non si trova più e per la quale tornerà ai combattimenti illegali; la ragazza di famiglia ricchissima, finita in galera per aver contrabbandato cocaina, ritroverà il medesimo vuoto che aveva lasciato; il ragazzo arrestato per rapina che non ha fatto il nome degli amici e li ritrova come bimbi sperduti, da soli, in balia di nessuno, padroni di se stessi in una vita senza regole, pronti ad un altro colpo; infine Claudio Amendola stesso, anziano e storico criminale dentro da 17 anni, che in un segmento autunnale e eastwoodiano trova un figlio cresciuto e avviato sul suo medesimo percorso.
Se la storia dei due ragazzi non ha speranze fin dall’inizio, e già dalle prime scene suona come un apologo buonista, pieno di una tenerezza fuori posto per genere e aspirazioni del film, piegato su stereotipi ai quali Il Permesso non riesce mai a dare vita e concretezza (peccato perché sono gli interpreti migliori), erano quelle di Argentero e Amendola, sulla carta, le parti migliori, quelle più prettamente criminali, classiche con stile. Invece sia la parabola di ritorno all’inferno del primo, che l’incredibile e assurda apocalisse in due giorni del secondo, pronto a sacrificare tutto in un atto eroico per la famiglia, suonano stonatissime e stanche. Non è la scrittura a mancare ma una certa fluidità nel raccontarle, un certo trasporto che non sfoci nel teatrale, nell’esagerato e nell’urlato.
Il problema di Il Permesso infatti è che in ogni momento carica oltremodo sulle spalle degli attori una teatralità nemica del genere cui far riferimento, invece che lavorare di rarefazione, ambienti, atmosfera e un senso di perdizione onnipresente, sceglie un approccio molto vecchio stampo (come del resto è il film).
Non aiutano certo le musiche che sembrano uscite da un film anni ‘80 a budget contenuto, né il loro uso. Specie nel segmento di Amendola la maniera in cui la colonna sonora si rapporta alle immagini è puro Vanzina dei tempi d’oro, un contrappunto per similitudine che arriva a rafforzare le emozioni già sbandierate sui primi piani. Amendola stesso sembra qui ai minimi come attore, spento e incapace di quella forza anche silente che gli si riconosce (senza andare troppo indietro basta il suo ottimo personaggio di Suburra), probabilmente in difficoltà dal doversi dirigere da solo.
Sommando tutto, il risultato è allora un film che mostra bene quanto il nostro cinema stia maturando quanto a rapporto con il genere (ambienti, fotografia, toni, uso delle comparse e luoghi sono tutti perfetti) ma quanto ancora debba lavorare su dialoghi e recitazione per raggiungere un livello medio produttivo quantomeno credibile.
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