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5.9.18

Suspiria (2018)
di Luca Guadagnino

Inizia sempre con la pioggia Suspiria, anche se non è più Suzy appena arrivata all’aeroporto a subirla ma una comprimaria, Patricia, studentessa ossessionata dalla scuola di danza di Berlino che frequenta, in fuga verso uno psicanalista a cui racconterà tutto venendo creduta poco (ma incuriosendolo abbastanza da spingerlo ad investigare).
Fin dall’attacco è chiaro che il Suspiria di Guadagnino organizza, sistema e inquadra la mitologia che l’originale invece accennava (preferendo rimanere allucinato dai colori fluo, dalle musiche sparate e da un delirio da cocaina). Guadagnino invece vuole tutto: vuole un film equilibrato, vuole creare una base narrativa di ferro, vuole esplorare le possibilità dello spunto, vuole trovare in quella storia la propria visione, vuole la grande Storia della Berlino del muro ma anche così tanta agilità da poter andare oltre Argento.

E di certo oltre l’originale è andato. Il suo Suspiria ingloba la fusione tra orrori della storia e orrori fantastici di Del Toro con la sofiticazione che gli appartiene da sempre, alcune soluzioni da Dario Argento e l’amore per la lingua che parla l’arte. Infatti quel che in Io Sono L’Amore faceva la gastronomia, in A Bigger Splash la musica e in Chiamami Col Tuo Nome un misto di varie discipline, qui lo fa la danza. L’arte diventa lo strumento per esprimersi più delle parole e dei volti. Nessuno come Guadagnino sembra conoscere il potere concreto e viscerale dell’arte sull’uomo, nessuno sembra padroneggiarne la sua rappresentazione al cinema come lui, nessuno ne sa esplorare l’influenza nelle vite e nelle relazioni delle persone come lui. Nei suoi film è come se non potessero esistere interazioni valevoli se non intorno alla manifestazione dell’arte.

Suspiria dunque decolla quando si danza, si parla di danza o ci si confronta sulla danza (qualcosa di quasi assente nell’originale che era invece più che altro un film d’architetture) e plana quando a fatica si distende l’intreccio per poi esplodere nelle due scene realmente horror del film (poche ma lunghe, impressionanti e piene di tutto quel che si può chiedere), purtroppo mai aiutato dalle musiche di Thom Yorke, scollato poco incisivo, che non riesce né ad essere quel fantastico cupido che era stato Sufjan Stevens in Chiamami Con Il Tuo Nome, né il generale che suona la carica che è Johnny Greenwood per Paul Thomas Anderson.

Per tutte queste ragioni Suspiria è un film più “grande” dell’originale ma purtroppo a tratti meno efficace, con tutta la vaghezza che quest’espressione comporta al cinema. Tempestato di momenti fenomenali e di un ritmo unico, quasi da cinema coreano (né lento né veloce, ma costante e rarefatto come un mare calmo attraversato da una forte corrente), Suspiria non è né realmente commerciale, perché non è così concentrato sull’azione e sulla soddisfazione dello spettatore, né pienamente d’autore, perché sembra ammassare le sue idee migliori in alcuni momenti, dimenticandosene in altri.

Non è insomma quel che ci si aspettava (che è sempre un bene), non è il film migliore di Guadagnino ed è solo a tratti un horror (molto più forte è il discorso sul rapporto madre/figlia, per quanto abbastanza astratto) ma è probabilmente il miglior modo in cui si poteva rifare Suspiria.

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