È tratto da un fatto vero Climax, almeno lo spunto dell’evento viene da una situazione reale degli anni ‘90 in piena era rave culture, è un piccolo gancio che consente a Gaspar Noé di disegnare la sua consueta parabola che sale in alto per poi picchiare fortissimo e sfracellarsi al suolo con rossi e verdi potenti, luci colorate e deliri psichedelici. È una storia delirante ma con basi reali.
Come in un horror confinato alcuni personaggi (dei ballerini) sono chiusi in un ambiente (una specie di capannone in mezzo alla neve) dove provano e ballano tutta la notte, in una specie di festa che qualcuno rovina aggiungendo degli acidi alla sangria. Da metà film in poi, quando le droghe fanno effetto, partirà un delirio tra il sabba di streghe, l’inferno in Terra del giudizio altrui e una specie di svelamento della realtà delle interazioni umane. Morte, sangue, prevaricazione, meschinità, come se tutti si levassero le maschere grazie alla droga.
Il problema di Noé è sempre lo stesso: è convinto che espedienti di bassa lega possano turbare e devastare lo spettatore se mostrati in un grande flusso visivamente raffinato. L’effetto shock che cerca e che dichiara a partire dall’esposizione delle proprie ispirazioni (inizialmente una pila di libri e una pila di VHS con titoli ben in evidenza incorniciano la presentazione dei personaggi, e sono tutti libri su grandi autori o horror o film al loro tempo considerati truci ed estremi) è così ridotto al minimo. Impressiona una donna incinta presa a calci, ma per i primi 5 secondi, impressiona un bambino sotto acidi chiuso in una stanza con il quadro elettrico che urla disperato, ma l’impressione termina quando non è più in scena. Nonostante un impegno come sempre encomiabile nel creare un mondo visivamente curatissimo (le molte coreografie e l’uso della musica sono di primo livello), Noé non riesce a creare nemmeno un’immagine memorabile ma solo traumi passeggeri.
Questo film che si divide in una parte iperdialogata (non benissimo) e un’altra invece in cui le parole non servono più a niente, tutta di azioni, deliri e dolore, in cui ciò che era implicito o sommesso nei dialoghi sfocia nei fatti, vuole incidere ma non ci riesce, studia molto bene le sue inquadrature ma non ha mai la capacità di sintetizzare in un colpo d’occhio la sua sfiducia verso la società. Alla fine la dovrà spiegare con un superfluo cartello.
Quello che lascia davvero delusi inoltre è come un regista così abituato a mettere in scena il delirio psichedelico e così abile tecnicamente, finisca per riproporre sempre le medesime soluzioni già viste, si appoggi a Sofia Boutella (la peggiore in un cast di ballerini) e non padroneggi invece un armamentario visivo vario e devastante.
La rappresentazione della società tramite un suo microcosmo rinchiuso, un classico dell’horror, qui vive di piccole idee da poco. All’inizio vediamo dei titoli di coda, poi la lunga fase di dialoghi e poi a metà film, quando sta per partire il delirio, ci sono i titoli di testa. Più di queste trovatelle il film non ha. In più l’enfasi che viene data a questi piccoli dettagli sembra quella che meriterebbero le scene madri perché molto di più non c’è in Climax.
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