C’è qualcuno che si è perso. Come sempre nel mondo dei giocattoli qualcuno è rimasto indietro nella sequenza d’azione iniziale e va recuperato, ma mentre avviene qualcun altro ancora potrebbe essere perduto per sempre. E del resto il nuovo arrivato, Forky, vorrà perdersi per propria decisione e andrà forzatamente recuperato. È il classico espediente Pixar e in un certo senso il destino dei suoi giocattoli: lottare continuamente per rimanere uniti. O almeno così crediamo.
Toy Story 4 non è il miglior film della serie (né asciutto come il secondo, né umano come il terzo) ma sostiene alla grande il peso della saga e si permette anche l’ambizione di chiuderla modificando quel che crediamo di sapere sulla vita dei giocattoli, riavvicinando Woody, vero protagonista, al genere che gli appartiene: il western.
Un Luna Park in cui si svolge la gran parte del film suona come le terre selvagge del west in cui esistono giocattoli senza padrone che vivono una vita autonoma e senza legge. Tra di loro Bo Peep, damina del west vista nei primi due film e non nel terzo per ragioni che vengono spiegate, ormai adattatasi ad una vita da Furiosa di Mad Max: Fury Road. Nessuno deve rimanere indietro, lo capisce anche Bo e quindi tutti cercheranno di recuperare Forky (giocattolo appena nato, creato dalla stessa proprietaria Bonnie) da un negozio di antiquariato in cui regna la bambola fallata e traumatizzata Gabby Gabby e il suo esercito di pupazzi.
Ottemperando alla mitologia del west classico cui appartiene, Woody viene reimpostato fin dalle prime scene come un personaggio che ad un certo punto nel suo passato ha scelto il dovere al posto dell’amore. Come i grandi pistoleri c’è un imperativo morale a dominarlo ed è sempre più importante della propria felicità. Pensavamo fosse realizzato al servizio dei padroni umani e invece forse non è così o se non altro c’è qualcosa che inizia a farsi strada dentro di lui, qualcosa che viene dal passato, proprio ora che non conta più così tanto nella gerarchia della bambina cui appartiene.
Toy Story è sempre stata la saga più introspettiva della Pixar. Ogni giocattolo a modo suo è psicopatico, la vita al servizio degli umani li fa impazzire e sono pieni di paure, hanno sindromi, turbe o traumi allucinanti che ne condizionano il resto della vita. È vero sempre per i cattivi ma lo è spesso anche per i buoni. Per questo i loro film affrontano sempre scelte e questioni intime e logoranti. La vita che fanno li rende pavidi e insicuri o li fa dipendere da qualcuno. Stavolta, tra i molti, Forky matura la consapevolezza di esistere quando capisce di avere uno scopo nella vita, Buzz Lightyear affronta il concetto di coscienza (curiosamente proprio come viene raccontato in Westworld) e Gabby Gabby lotta con l’imperfezione del proprio corpo.
Questo quarto capitolo non è scritto con la precisione degli altri (lo si vede dalle trovate dozzinali con le quali i giocattoli ottengono i loro obiettivi all’insaputa degli umani, lo si vede dai personaggi nuovi che sono solo riproposizioni di altri personaggi della saga o gender swap di eroi classici, eccessivamente cool e perfetti e lo si vede da quanto Josh Cooley abusi della soluzione di far vivere ai giocattoli momenti emotivi davanti agli umani quando sono costretti a non mutare espressione), è figlio di un team con molte nuove leve e il solo Andrew Stanton a rappresentare la vecchia guardia e, nonostante in superficie sembri un tipico film di Toy Story, è ben diverso. Lo dimostra innanzitutto lo score che sembra uscito da una commedia anni ‘50 ma lo dimostra anche l’umorismo e la ricerca forsennata della commozione. Questo è un film decisamente più revisionista, pensato da altre teste che tuttavia ammirevolmente tiene il passo degli altri.
Tutto riesce infatti alla fine, Toy Story 4 commuove già dopo i primi 5 minuti, fa ridere moltissimo ed ha una tenerezza che il resto del cinema gli dovrebbe invidiare. Anche se le sue fondamenta scricchiolano è un film bellissimo, pieno di straziante desiderio di felicità, armonia e realizzazione.
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