Stavolta stiamo per fottere l’intero sistema solare.
L’uomo non fa mai bene al pianeta Terra nella fantascienza (come nel presente) e in Ad Astra è definito proprio un “divoratore di pianeti” che adesso, nella sua sete di esplorare, conoscere e possedere l’universo ha scatenato qualcosa che sta minacciando tutto il sistema solare e che Brad Pitt deve aiutare a contenere perché personalmente coinvolto nella faccenda.
Questa in soldoni la premessa che muove il film e mette questo personaggio strano, inusuale e distante da tutto, al centro di un’avventura. E davvero Ad Astra, nonostante il suo tono compassato, ha la successione di eventi di un’avventura. Il suo protagonista vede tutto e segue tutto con una strana forma di distacco e con una calma impressionante che si riflette nella messa in scena, calma come lui anche quando accade di tutto. Tuttavia ci sono assalti e inseguimenti da western, ci sono creature mortali nascoste come nell’horror e mezzi alla deriva e in balia degli elementi come nell’avventura pura.
Semmai è questo protagonista che pare non essere un tipo da avventura, anche se poi ha tutta la destrezza necessaria. Il suo distacco è annunciato nella prima sequenza in cui si confessa e si “spiega” al pubblico in uno specchio. Ha un battito cardiaco bassissimo che non si alza neanche quando nella prima sequenza rischia la vita con una calma difficile da condividere per il pubblico.
Ad Astra ha infatti la mirabolante perizia tecnica e tecnologica di Gravity unita alla luce e ai colori iperrealisti di Interstellar nonchè la sua visione dello spazio. James Gray li usa per raccontare i confini della nostra sanità mentale. Il limite dello spazio come limite dell’uomo che più viaggia nell’universo più impazzisce. Così per la prima volta in questi anni la voglia di esplorare, conoscere e scoprire è un’ossessione suicida e negativa (La città perduta pure girava intorno a questa idea).
Ci sarebbe materia per un buon film ma Ad Astra non lo è. Troppo pasticciato, troppo incapace di condensare le idee in immagini vincenti e quindi troppo moraleggiante a parole (imperdonabile che alla fine uno dei personaggi faccia un bilancio a parole per chiudere tutto). La sensazione è sempre che il film si sia perso per strada e che James Gray non abbia saputo governare una barca più grande di quelle che pilota di solito. Palesemente c’è l’intenzione di piegare le regole dei blockbuster al cinema d’autore ma altrettanto palesemente ci rimettono sia l’intrattenimento che la possibilità di un film davvero sofisticato.
Né carne né pesce è un polpettone pieno di domande retoriche che verso la fine fatica anche a mettere in fila gli eventi più semplici o a chiudere con decenza la propria parabola.
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