Non ci sono dubbi sulle intenzioni di Igort, 5 è il numero perfetto è fatto anche per esporre le sue passioni e i suoi riferimenti (che non è mai il massimo). I suoi modelli sono i noir classici a metà tra quelli del cinema e quelli dei fumetti (da cui proviene) i colori sono quelli della carta, l’uso dello scenario pure (Napoli pescata benissimo in quasi ogni inquadratura, specie in un inizio che pare strappato ad un fumetto e trasposto come dovrebbe essere sempre fatto), mentre personaggi e svolgimenti appartengono più al cinema, perché è la storia di un killer della mala uscito dal giro ma costretto a tornare in attività per via di un torto subito. L’impostazione è così giusta che il film già dalle prime scene si posiziona esattamente dove vuole stare.
I problemi vengono dopo. Dopo una sparatoria tutta bagliori nel buio come in Brother di Takeshi Kitano (brutto presagio, anche quello era un film pieno di problemi) e dopo che la trama ha preso davvero il via. Igort ogni volta che prova ad allontanarsi dall’ispirazione fumettistica e cerca di ricalcare il cinema trova momenti fuori luogo. Ad esempio iIn questa storia di un killer ormai vecchio, appartenente ad un’altra epoca della malavita, pieno di ricordi amari e di morte che è ancora il migliore e che deve tornare suo malgrado ad uccidere ci sono doppie pistole e ralenti come in John Woo senza le sue coreografie precise, accade così che il ritmo rallentato enfatizzi le mancanze di colluttazioni, cadute, salti e movimenti. Su tutto troppo spesso trionfa un citazionismo da oratorio che avvicina 5 è il numero perfetto più ai film sconclusionati e sgangherati dei Manetti che ai modelli dichiarati.
Se visivamente Igort riesce effettivamente ad imprimere una personalità molto forte al film, una che gli garantisce un grandissimo avvio e alcuni momenti (specie in esterni) molto centrati, la narrazione è un disastro. Non solo perché continuamente i personaggi fanno piccoli riassuntini della storia ad alta voce interrompendo il ritmo e annacquando la tensione, ma perché in una storia di durezza e violenza viene negata tutta la componente sanguinolenta. Igort sceglie di non avere nemmeno uno schizzo di sangue, di attutire la violenza, stilizzarla e disinnescarla mentre la moltiplica. 5 è il numero perfetto è come il teatro della marionette, non è la realtà è una sua astrazione fatta di vestiti stirati e colorati, un’astrazione in cui si spara tantissimo e si muore senza efferatezza.
Vengono così fusi molto male da una parte un mondo duro e moderno, dall’altra l’assenza di crudezza (come nei noir anni ‘40); da una parte John Woo, dall’altra Dick Tracy.
A unire questi opposti e renderli credibili potrebbero essere gli attori ma chi tiene il film in vita artificialmente è solo Toni Servillo e solo occasionalmente. Si vede che stavolta il personaggio lo gradisce, ci si impegna e cerca di muovere tutto nella scena solo con il suo di movimento. Quando ci riesce è intrigante se non proprio magistrale, perché crea dinamismo lungo tutta una scena anche se quando si tratta di un monologo. Tuttavia non è una soluzione che può reggere e alla lunga il fatto che Igort in questa storia (dal ritmo molto fiacco) non veda nulla al di là dei fatti raccontati comincia ad essere pesante e svuota progressivamente il film di tutto quello che di buono l’attacco aveva annunciato.
In un mondo e in una storia così derivativi, che la sola personalità venga dall’impianto visivo non basta.
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