Nel suo primo film non in lingua giapponese Hirokazu Kore-eda esporta i suoi tipici figli adulti, sempre affannati e alla rincorsa di qualcosa, sempre in cerca di realizzazione o di un amore che non gli è stato dato e non hanno mai smesso di bramare. Si tratta del suo mondo in una sintesi purtroppo poco esaustiva, elevata dalla solita produzione francese impeccabile (in particolare il sontuoso ed invisibile direttore della fotografia Eric Gautier, lo stesso di Into The Wild) ma affossata dalla mancanza di un finale.
Il riflettore di La Verità è tutto puntato su Catherine Deneuve, grande attrice, pessima madre di una figlia ora diventata sceneggiatrice in America con marito americano attore anche lui ma di serie B. Lei non perdona nulla a nessuno, è megalomane, vanitosa ed egocentrica come il peggior stereotipo di una diva. A Catherine Deneuve viene concesso un affascinante umorismo cattivo e cinico, fa ridere il pubblico e lascia trapelare più sentimenti di quelli che il suo personaggio dichiara, troneggia in ogni scena attirando tutte le attenzioni.
Lei ha scritto l’autobiografia chiamata La Verità, che tuttavia la figlia sostiene essere piena di falsità (cosa che non le perdona, tra le tante), e sempre lei sta lavorando ad un film di fantascienza accanto ad un’attrice emergente e brava, simile ad un’altra attrice emergente e brava che decenni prima forse lei ha spinto all’alcolismo (che poi l’ha uccisa) per non essere superata.
Come tutti i personaggi altezzosi, straordinari e terribili quello di Catherine Deneuve riempie lo schermo di un film che lavora benissimo su tutti gli attori, che dosa Ethan Hawke e sembra brillare quando manipola, aiuta e sostiene la sua bambina attrice. Tuttavia il vero lavoro di La Verità lo fa Juliette Binoche, attrice così intelligente da aver capito molto bene che un passo indietro, in questo film, è un passo avanti. La sua figlia frustrata da cotanta madre, mai davvero coccolata, sempre messa in secondo piano e mai all’altezza è un gioiello di sentimenti complicati, contrastanti e difficili da conciliare. Non c’è scena semplice per lei, ha sempre chiaramente diverse idee che lottano dentro e diverse spinte contrastanti tra cui deve scegliere. E di gioielli come questo La Verità ha bisogno come il pane perché la notizia è che stavolta la sceneggiatura non è il consueto orologio precisissimo e più si avvicina alla fine più mostra la corda.
C’è ovviamente qualcosa che incombe su questa famiglia che si riunisce quando inizia il film, qualcosa nel passato i cui effetti sentiamo anche adesso. Non siamo tuttavia in un film di Asghar Farhadi, non siamo in Il Passato, c’è un mistero che però è tale solo per noi che non lo sappiamo e non per i personaggi e soprattutto questo mistero non è un intreccio.
Purtroppo La Verità sembra rincorrere sempre i suoi personaggi, un passo troppo indietro per apprezzarli e capirli ma non così lontano da non vederne la complessità. Ce ne accorgiamo quando arriva la risoluzione finale, non forte come al solito, priva di quella forza che contraddistingue i migliori film di Kore-eda, una forza simile alla bellezza quieta e ordinaria delle fronde scosse dal vento. Non ci sono grandi risvolti o scoperte illuminanti, La Verità mantiene una calma apparente con pochi scossoni che lo danneggia e gli impedisce di fare il passo finale da scenario appassionante a film conivolgente.
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