Il cinema italiano da decenni ormai ha rinunciato al racconto delle grandi passioni e delle grandi tragedie. I lacrimoni li ha lasciati alla televisione (con risultati non certo esaltanti) e Ferzan Ozpetek è rimasto l’unico a tentare di mettere in scena il panorama contemporaneo del melodramma. Come, dove e in quali situazioni si annidino le storie dai sentimenti potentissimi nel mondo moderno. Gioca in un campionato nel quale è di fatto da solo. È un pregio ma anche un peso e in La Dea Della Fortuna si sente, perché torna alle sue atmosfere classiche dopo due film in cui aveva vagato senza un vero senso tra Napoli e Istanbul, libero di vagare su territori che nessuno esplora ma anche in affanno e sempre debitore a modelli stranieri.
Una coppia gay deve badare ai due figli di un’amica mentre questa si sottopone a dei controlli in ospedale. Più avanza il film più il sospetto che questi controlli possano sfociare in tragedia e lei possa non uscire più dall’ospedale (lasciandogli i figli) si fa strada dentro di loro. Devono così venire a patti con qualcosa che non credevano di dover fare (essere genitori) in un momento in cui forse stavano per lasciarsi e gestendo una situazione complicata per due bambini.
Tutto si svolge sul terreno in cui Ozpetek si muove meglio, quello delle storie dal taglio ironico e dagli esiti tragici, fatte di grandi gruppi di amici e piccole trame particolari. Per questo fa sempre così strano come un narratore con questa ossessione per il melodrammatico sia poi così goffo nei cambi di tono e registro, così meccanico nel passare da leggero a melò… Ad ogni modo questa volta trova un aiuto là dove erano meno scontato, cioè in Edoardo Leo, che passando attraverso il registro della commedia (quello a lui più familiare e nel quale è perfettamente a suo agio) batte una strada tutta sua per animare con efficacia un personaggio duro e tenero al tempo stesso. Sbruffone, semplice ma coriaceo. Di lui vorresti sapere tutto, del suo compagno niente.
Altalenando tra un filone principale non male (quello per l’appunto della coppia, i bambini e l’amica malata) e le trame degli amici che vengono solo accennate, decisamente abbozzate, fortemente inutili se non ridicole, La Dea Della Fortuna ci mette un po’ a trovare la strada migliore ma proprio quando ci arriva cambia e diventa un altro film. In un finale rocambolesco tutto precipita, viene iniettato a forza un villain cattivissimo senza appello o giustificazioni contro il quale il pubblico può essere catalizzato e che dà modo ai due protagonisti di trovare una redenzione forzata e rapida. Certo ci saranno finalmente i grandi sentimenti, la foga e la furia, ma sarà quanto di più artificioso si possa immaginare, per nulla coerente con il resto della storia e appiccicato lì giusto per arrivare alla chiusa in mare (ben congegnata).
Alla fine la perfetta metafora del film è l’immancabile scena di ballo che giunge implacabile a metà della durata. Inizia con un movimento dolce e una musica poco convenzionale, come fossimo in un film di Almodovar in cui il ballo è qualcosa che si contempla, e poi lentamente scivola in una scena di ballo all’italiana, con una musica più convenzionale e tanti personaggi coinvolti in un gioioso caos, una scena in cui ballare serve solo a far sfogare i personaggi e mostrarli felici. Così funziona anche il resto del film: finchè tiene dritta la barra dei propri riferimenti rimane a galla, quando cerca di deviare per creare qualcosa di diverso finisce nei lidi più consueti e meno interessanti.
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