Il cinema di Becker si conferma sempre più esaltante e avanti anni luce sui suoi tempi.
Nell'anno d'oro della Nouvelle Vague il 54enne Becker è avanti e gira quello che è il suo ultimo film con uno stile semidocumentaristico e una rarefazione mai visti prima. Obiettivi cui tendevano anche Truffaut e soci, ma che in Il Buco è in incredibile equilibrio con una narrazione centrata sull'azione e non sui personaggi come invece prevedeva la nuova onda francese.
Credo si tratti davvero di uno dei pochissimi esempi di cinema comunque fortemente ancorato al racconto di fatti, che riesce ad avere uno stampo così semidocumentaristico e così privo di un intreccio propriamente detto.
La meraviglia incredibile di questo "film d'evasione", in cui un gruppo di galeotti tenta di evadere nella maniera più classica, scavando un buco che li porti fuori, è come riesca ad avvincere e conquistare mostrando i minimi dettagli delle azioni di fuga.
Il cuore sono infatti le scene in cui la roba da mangiare inviata da fuori è ispezionata dai secondini, in cui vengono costruiti gli arnesi per lo scavo e in cui vengono esplorati i sotterranei.
Becker sembra (ma non è vero!) voler riprendere tutto, senza perdersi nulla mentre in realtà compie bene le sue scelte. Sono riprese senza stacco (o quasi) intere sequenze di scavo del buco, intere camminate nei sotterranei a lume di candela o di limatura delle sbarre, tutto senza neanche un accenno mai di colonna sonora ma con un'attenzione pazzesca ai rumori. Sono i veri rumori dei botti, delle assi, delle pietre e delle pareti che sono colpite il vero contrappunto del film.
Ad unire tutto è chiaramente il tema dell'amicizia, il rapporto che si crea nella cella e che Becker racconta anche con sequenze lunghe prive di dialoghi nelle quali i personaggi (disposti da Dio nell'inquadratura!) apparentemente non fanno nulla, semplicemente impegnati in attività normali come mangiare o dormire.
Ma ancora più abilmente l'equilibrio del film è poi dato dall'alternarsi del racconto della quotidianità e della noia della vita in prigione con la minuziosa descrizione del funzionamento dell'evasione. Nulla è risparmiato, da come si scassina una porta a come si sfonda un muro.
E quando (verso la fine) per la prima volta si vede l'esterno della prigione, è un momento che davvero non si dimentica al pari della fenomenale frase di chiusura: "Povero Roland".
Nell'anno d'oro della Nouvelle Vague il 54enne Becker è avanti e gira quello che è il suo ultimo film con uno stile semidocumentaristico e una rarefazione mai visti prima. Obiettivi cui tendevano anche Truffaut e soci, ma che in Il Buco è in incredibile equilibrio con una narrazione centrata sull'azione e non sui personaggi come invece prevedeva la nuova onda francese.
Credo si tratti davvero di uno dei pochissimi esempi di cinema comunque fortemente ancorato al racconto di fatti, che riesce ad avere uno stampo così semidocumentaristico e così privo di un intreccio propriamente detto.
La meraviglia incredibile di questo "film d'evasione", in cui un gruppo di galeotti tenta di evadere nella maniera più classica, scavando un buco che li porti fuori, è come riesca ad avvincere e conquistare mostrando i minimi dettagli delle azioni di fuga.
Il cuore sono infatti le scene in cui la roba da mangiare inviata da fuori è ispezionata dai secondini, in cui vengono costruiti gli arnesi per lo scavo e in cui vengono esplorati i sotterranei.
Becker sembra (ma non è vero!) voler riprendere tutto, senza perdersi nulla mentre in realtà compie bene le sue scelte. Sono riprese senza stacco (o quasi) intere sequenze di scavo del buco, intere camminate nei sotterranei a lume di candela o di limatura delle sbarre, tutto senza neanche un accenno mai di colonna sonora ma con un'attenzione pazzesca ai rumori. Sono i veri rumori dei botti, delle assi, delle pietre e delle pareti che sono colpite il vero contrappunto del film.
Ad unire tutto è chiaramente il tema dell'amicizia, il rapporto che si crea nella cella e che Becker racconta anche con sequenze lunghe prive di dialoghi nelle quali i personaggi (disposti da Dio nell'inquadratura!) apparentemente non fanno nulla, semplicemente impegnati in attività normali come mangiare o dormire.
Ma ancora più abilmente l'equilibrio del film è poi dato dall'alternarsi del racconto della quotidianità e della noia della vita in prigione con la minuziosa descrizione del funzionamento dell'evasione. Nulla è risparmiato, da come si scassina una porta a come si sfonda un muro.
E quando (verso la fine) per la prima volta si vede l'esterno della prigione, è un momento che davvero non si dimentica al pari della fenomenale frase di chiusura: "Povero Roland".
3 commenti:
Te l'avevo detto che era stupendo.
mai messo in dubbio infatti
ma continuo a preferire Grisbi
Non l'ho più rivisto dall'unica volta, circa una decina d'anni fa, quando lo passarono su fuoriorario, ma quel momento che descrivi lo ricordo ancora, come anche il silenzio e la tensione di tutto il film.
Posta un commento