C'è un doppio vincolo nei documentari di cinema: a prescindere dalla loro fattura il concetto che sta alla loro base (raccontare un film, un autore, un periodo o un momento della storia del cinema) avvince e conquista. Per loro natura hanno in sè la forza del racconto epico e del dietro le quinte della stessa forma d'arte di cui fanno parte. Dai documentari di cinema si è attratti sempre ma è anche vero che essi stessi sono film e oltre a fornire informazioni, nei casi migliori cercano di lavorare anche sulle immagini che propongono.
De Palma è il classico esempio di documentario pigro, senza voglia e piegato sul suo aspetto più superficiale, ovvero l'aneddotica. È indubitabile che quest'aneddotica nel caso particolare sia fantastica, anche perchè Brian De Palma nel raccontare la sua carriera di film in film, dimostra una vivacità e una capacità di intrattenere di rara affabulazione (aiutato anche dalla totale mancanza di peli sulla lingua) e questo basta effettivamente a consigliarne la visione. De Palma mostra e avvince, racconta e stimola ma Baumbach e Paltrow no. I due registi sembrano non esistere.
Solitamente nel cinema di finzione l'invisibilità dell'autore è un pregio ma in questo caso l'invisibilità coincide con l'assenza di un punto di vista. Ai due registi non si chiede necessariamente un punto di vista critico ma almeno una messa a fuoco della materia trattata con il periodo, lo sviluppo di questa forma d'arte o anche solo il loro di cinema (come fa Scorsese quando tocca questi temi). Si chiede solo di far sentire la propria mano.
Il contrasto tra queste due teste che pensano cinema poteva scatenare qualcosa di più maturo di questa tesi compilativa. Era insomma lecito aspettarsi da Paltrow e Baumbach un'elaborazione e una lettura di De Palma invece di questo palchetto da cui far parlare l'autore e montare le sue frasi con le scene dei film di cui racconta.
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