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27.10.16

Doctor Strange (id., 2016)
di Scott Derrickson

C’era una cosa che non andava sbagliata in Doctor Strange ed era la dimensione visiva, un complicato coacervo di design lisergico anni ‘70, new age (anche un po’ d’accatto), Escher e caleidoscopi. Armamentario vecchio stampo da lustrare per una nuova occasione. Non solo il film di Scott Derrickson (l'uomo dietro Sinister) non la sbaglia ma preme l’acceleratore in maniere che non era facile aspettarsi, esagera tantissimo trovando nella confusione il proprio ordine, nell’ardire visivo degli sfondi e nel muoversi in controtempo delle figure in primo piano la sua cifra unica, dimostrando che è con i personaggi minori la Marvel può osare un po’ di più e finisce per dare il meglio. Caotico come pochi film è in realtà matematicamente ordinato per non far perdere mai l’occhio dello spettatore nei suoi labirinti. In questo è unico e una boccata d'acqua fresca che ricorda cosa aveva impressionato dei primi film dei Marvel Studios.
I ribaltamenti escheriani da Inception, i labirinti, le stanze che si rivoltano non le inventa questo film, eppure è un altro l'elemento che ricorda Nolan, non la città che si chiude o i corridoi che si rivoltano ma la forza muscolare filmica di gestire una macchina visiva molto complessa con la forza necessaria mantenere tutto chiarissimo. Cinema dai bicipiti grossi che tiene le redini di situazioni in cui altri si sarebbero persi sfociando nella confusione. Sicuramente porta quelle dinamiche ad un altro livello, di fatto rinegoziandone il ruolo e giocando con la saturazione della percezione dello spettatore. Anche e soprattutto grazie al 3D.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che questa sia la prima volta in un cinecomic in cui la visione in 2D è deficitaria. Fin dalla prima parte, in cui ancora le molte dimensioni in cui si sposta il Dottor Strange (bellissimo lo snobismo con cui tiene al proprio titolo) non sono presenti e la storia è solo quella di un chirurgo arrogante, Derrickson enfatizza moltissimo la profondità, giocando più che altro con il contrasto degli oggetti in primo piano. Abituati a questo, quando poi il Dottore passa di dimensione in dimensione, il film si spinge in là pure con la sua di dimensione (la terza) e il pubblico a quel punto è in grado di sostenere anche momenti ardimentosi e vertigini psichedeliche. Peccato che la musica non giochi un ruolo fondamentale al medesimo livello ma si limiti ad accompagnare con il consueto stile invisibile Marvel (cosa che per fortuna non avviene con le canzoni, ben scelte in campionario giustamente d’epoca).

Certo al centro di tutto c’è comunque una origin story abbastanza canonica, fatta di una premessa, un “incidente”, una preparazione e una scoperta di poteri propedeutica ad uno scontro con una nemesi, e c’è anche il consueto tono divertito di grande intrattenimento Marvel. Ma non è lì il punto stavolta, anzi inizialmente il film appare molle, come un pugile fuori allenamento, debole di gambe, poco agile e fiacchissimo nel portare i suoi colpi con dialoghi spenti. È quando invece il tempo accelera e il mago entra in possesso della sua magia che tutto comincia ad avere senso.

La faccia inclassificabile di Benedict Cumberbatch, aliena e fuori dai canoni, contribuisce non poco al fascino sghembo di questo film molto canonico che fa di tutto per mescolare le proprie carte (e bene). Occhi piccoli zigomi alti e guance il cui scavo è enfatizzato sono unite ad un fisico fuori forma per i film di supereroi, molto asciutto e di intrigante secchezza (come tipico delle figure potenti orientali). Ma questo lo si poteva capire già dalla cartellonistica e dalle foto.
Il merito del film sta nel suo farsi, nel suo srotolarsi labirintico che confonde a tutti i livelli, anche nella trama, apparentemente fondata sullo spazio, sulle dimensioni e gli spostamenti ma poi più che altro giocata sul tempo (di fatto distorcendo entrambe le dimensioni senza risultare ma ingarbugliato), in cui si vedono scene di inedita paradossalità come l’agire mentre il tempo si riavvolge. Un film d’azione con testa che sa essere sveglio e così a suo agio da poter far ridere anche nei momenti tradizionalmente di suspense (lo showdown finale), fare umorismo anche solo con un effetto sonoro (il risveglio improvviso sul lettino) e, caratteristica fondamentale del Marvel Touch, sa far tutto senza prendere niente mai sul serio.

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