Che questo non sia un film di sottomarini come gli altri Abel Lanzac (pseudonimo di Antonin Baudry) cerca di farlo capire subito, fin dalla prima scena. A differenza di quello cui siamo abituati quanto a sequenze d’azione e di guerra dentro i sottomarini Wolf Call fa bella mostra di voler negare tutto il dinamismo interno, la furia negli spazi stretti e le corse nei corridoi, anzi vuole puntare su altro, sull’immobilismo. Ha Reda Kateb dalla sua, attore incredibile, volto noir perfetto e clamorosa macchina da poche espressioni. Lui, seduto, immobile, acuto, è il comandante ed è come la montagna di Kagemusha: ferma e per questo di incredibile carisma. C'è Kurosawa e la sapiente alternanza di stasi e azione, e c'è un'enfasi quasi da Hollywood degli anni '50 sul volto.
Sarà la cifra di tutto un film che fa grandissima fatica quando le scene si svolgono fuori dal sottomarino e invece trionfa al suo interno. Baudry ha frequentato veri sottomarini per raggiungere il massimo del realismo nella finzione, è stato dentro e a vere persone si è ispirato per i suoi personaggi. Lì dentro, nei sottomarini, Wolf Call è infallibile, al contrario invece quando questo film di geo-politica, minaccia nucleare e rapporti tra stati gioca sulle convenzioni del genere al di fuori dei sottomarini fallisce, e non sembra impermeabile a qualche esagerazione mal proposta (il protagonista dall’udito molto sviluppato che capisce cosa viene scritto su una tastiera ascoltando bene il rumore dei tasti), per fortuna la gran parte della storia è sott’acqua.
Appollaiato come un avvoltoio Reda Kateb incombe ma anche il resto del team di attori lavora benissimo, ed è lì che il film si gioca le proprie carte, non tanto con il montaggio (che spesso è l’arma di questi film) ma proprio con i volti e una forma di intensità mai melodrammatica, sempre pericolosa. Addirittura da quando scompare Omar Sy rimane solo il meglio del cast a donare primi piani che traboccano di linguaggio tecnico incomprensibile ma di grande funzionalità. È la seconda arma di un film sul sonoro che tuttavia non punta sul comparto del missaggio o del sound design ma sul ritmo di dialoghi così tecnici da essere incomprensibili eppure perfetti.
Curiosamente Wolf Call è un film che tecnicamente non cerca di eccellere mai ma punta tutto sulla sceneggiatura e sulla maniera in cui è recitato.
Così concentrato sulle sue dinamiche d’azione e guerra è il film da dimenticare un po’ il resto. E i molti riferimenti geo-politici non sembrano mai fare appello a valori più grandi. Anche la retorica militarista (o il suo opposto) non sembrano mai davvero oggetto degli interessi dell’autore, non fosse per il fatto che in tutto il film il desiderio ottuso di eseguire degli ordini è visto come una virtù. Non mette in discussione niente di quello che racconta, lo dispiega benissimo, gli dà passione e ritmo ma lo accetta anche passivamente e questo un po' lo asciuga di sapore. Non ci sono veri contrasti, solo problemi che i personaggi devono risolvere.
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