Tutto ci si poteva immaginare tranne che Edward Norton potesse partorire un hard boiled classico losangelino, trasferendolo a New York. E addirittura poi che questo potesse venire bene. Motherless Brooklyn non ha davvero nessuna paura delle sue convenzioni, delle regole del genere e di suonare classico, e forse proprio per questo è così libero di essere un buon film, libero di concentrarsi e fare bene il proprio lavoro. Non ha ambizioni smisurate ma conosce così bene la storia del proprio genere e la padroneggia così bene (per quanto avendo sempre un romanzo come base) da permettersi anche un buon tocco personale. E che piacere un film che sa cosa fare e come farlo!
Norton, che prima di questo film aveva diretto solo Tentazioni D’Amore (non proprio nello stesso genere) si dimostra subito bravissimo e terribilmente voglioso di fare cinema. Il film parte infatti con una sequenza di suspense e tensione molto complicata, giocata tra conversazioni ascoltate e due piani da seguire (chi è dentro e cerca di fregare qualcuno e chi è fuori che monitora tutto stando attento a non farsi vedere), seguita da un inseguimento in cui nulla è fatto con pigrizia, tutto è disegnato con cura per impegnare lo spettatore. Il ritmo ad esempio non è mai impresso con il montaggio ma viene dai dialoghi che accompagnano l’azione e dai tic del protagonista (interpretato dallo stesso Norton) che come un rullante scandiscono la scena. Più è concitata più i tic aumentano.
Funziona come azione, funziona come introduzione ad un protagonista che è il sogno di ogni attore, affetto da Tourette in anni in cui questa sindrome non ha nemmeno un nome e con un lavoro (l’investigatore) in cui l’ultima cosa da fare è sparare insulti in maniera incontrollata.
Proprio questo personaggio, terribilmente tarato ma che lungo il film si rivela abile e capace, è il piacere di Motherless Brooklyn, crescere con lui ed esplorare con lui New York è fantastico. Perché questo film la città ce l’ha in pugno. Come tutti gli hard boiled una questione apparentemente piccola ne svela una gigante, un complotto politico e cittadino che nasconde storiacce personali. La storia della città è la storia degli uomini che la fanno, il marcio della città è il marcio degli uomini. E Motherless Brooklyn ha un rapporto fenomenale con le location: sono tantissime, delicate e trattate con cura. Questo noir d’esplorazione urbana vive la New York del 1956 con lo stesso piacere con cui Tarantino esplora la Hollywood del 1969. Si può passare anche un’intera scena a sentire un brano suonato in un locale jazz senza che stoni.
Chinatown è palesemente il suo modello ma Norton è così abile da muoversi parallelamente al film di Polanski e non nella sua ombra. Si prende il personaggio migliore già sulla carta, il più complicato da interpretare e quello che più muta (anche nella postura) lungo il film, guadagnando da sé la propria dignità, tuttavia è Alec Baldwin a fare il vero lavoro. Gli tocca un personaggio importante ma con poche scene e lui fa di ogni secondo un tesoro. Si veda come entra in scena, non inquadrato in volto, come cammina storto e ingombrante quando impone la firma di un certo documento già nelle prime scene, come si accende le sigarette con la bramosia di un coccodrillo che divora uomini sotto forma di fumo. Il vero Kingpin. Ogni gesto diventa una maniera per dire al pubblico che questo che interpreta è un animale possente, un rinoceronte della metropoli, inarrestabile e cattivo, quando alla fine il suo dialogo spiegherà tutto ciò il pubblico lo avrà già capito grazie a lui.
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