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20.5.10

Udaan (id., 2010)
di Vikramaditya Motwane

FESTIVAL DI CANNES 2010
UN CERTAIN REGARD

Se non avete mai visto un film indiano commerciale vi siete persi qualcosa. Perche' se il cinema autoriale non e' troppo dissimile in tutto il mondo (ha solo stili differenti e come dice Marco Muller "sono film che tra di loro sono in rapporto come le onde del mare"), quello commerciale e' molto diverso poiche' per sua natura va incontro ai gusti dei diversi pubblici.
In India in particolare c'e' un semplicismo, una banalita' e una naivite' che da noi non si vedono piu' al cinema credo dagli anni '40 e che a primo impatto ci suonano semplicemente ridicoli.

Questo pero' e' un problema nostro non loro. Perche' se il cinema popolare indiano lo e' nel senso piu' stretto del termine (per il popolino) non e' detto che debba essere fatto male, dunque nei casi migliori, come e' quello di Udaan, riesce a raccontare la storia piu' scontata della Terra, i personaggi piu' tipici mai visti, con una forza ed un'efficacia che prendono in contropiede l'arrogante spettatore occidentale.

In Udaan si racconta di un ragazzo di 17 anni, cacciato da scuola per una bravata che deve tornare a vivere con un padre oppressivo che non lo vede e non lo sente da 8 anni. Il padre e' una bestia, il massimo dell'oppressivo, vuole controllare il futuro del figlio, lo mena, lo minaccia e lo violenta psicologicamente. Il figlio al contrario vuole fare il poeta (IL POETA!! Una cosa che non si sentiva da decenni! Nemmeno nelle fiction italiane!), come simbolo della sua sensibilita' e del legame che aveva con la madre, ovviamente morta. C'e' anche (e come poteva mancare!) un fratellino di sei anni sul quale si abbattono ugualmente le angherie paterne.

Vikramaditya Motwane e' bravissimo nell'accumulare con classe la frustrazione nello spettatore che, come a me non capitava da anni, arriva a provare autentico e sincero odio per il cattivo di turno (come in quei racconti del cinema di una volta in cui il pubblico poi se la prende con l'attore come se fosse il personaggio) per poi liberare la commozione nell'ovvio finale positivo.
Giocando su elementi determinanti come i volti e il movimento dei corpi (lo sguardo severo del padre, la camminata innocente del fratello), Motwane davvero riesce a coinvolgere partendo dal basso. Nonostante la purezza infantile e le aspirazioni intellettuali e sentimentali non possano piu' essere per uno spettatore smaliziato motivo di partecipazione sentimentale, l'abilita' indiana nel fare un cinema dai valori semplici riesce a dare vita ad un racconto che non si vergogna di essere sfacciatamente sentimentale e melodrammatico conquistando cosi', con onesta' intellettuale e cura registica, la totale partecipazione dello spettatore.
Cioe' non mi sono infastidito nemmeno quando le consuete canzoni cantano di sottofondo "La liberta' non puo' essere donata/ma va conquistata/Spicca il volo Rohan". Giuro che ci stava bene.

4 commenti:

pap ha detto...

noi occidentali siamo così cool...e la cosa più cool è essere così maledettamente cinici.
Ma perchè?


gparker ha detto...

una volta non lo eravamo, il punto è che siamo meno popolari e anche la parte popolare del pubblico si percepisce come sofisticata e non accetta queste cose.


pap ha detto...

Ora posso dirlo: solo rinnegando la deriva cinica del mondo occidentale, possiamo goderci appieno il finale di Lost.

Io l'ho fatto e son contento così!

paolo


gparker ha detto...

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...ma sono vivo e non ho più paura! by Gabriele Niola is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported License.