CONCORSO
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Non è iraniano ma libanese L’Insulto, eppure nel suo ping-pong di pareri, giustizia e irrisolta capacità di arrivare al fondo di una diatriba si intravede Asghar Farhadi e i suoi film dalle dinamiche inconoscibili, in cui sembra che la giustizia non possa esistere.
Si intravede soltanto perché in realtà L’Insulto parte dalla dimensione personale ma poi fa di tutto per metterla in relazione con il pubblico. Qualcosa di molto piccolo che diventa molto grande, una guerra tra due persone per un’ingiuria, diventa la guerra tra due avvocati, che è la guerra tra un padre e una figlia, che diventa una guerra tra due religioni che è poi la guerra tra due fazioni politiche. Dalle strade ai notiziari, le tensioni (poco) trattenute del Libano di oggi tra libanesi e palestinesi, tra conflitti e orrori di guerra mai sanati sembrano essere lì lì per esplodere.
Eppure descrivere così L’Insulto è forse la maniera più ingiusta di spiegare che film sia. Perché questo film di Ziad Doueiri in realtà è un legal thriller in piena regola che vuole fermamente confinare qualcosa di così ingombrante e prepotente come le tensioni politiche e religiose nello sfondo, lotta per tutta la sua durata per mostrare come una battaglia legale appassionante e piena di colpi di scena, sia solo una questione tra due persone. E questo anche quando viene impugnata da gruppi di pressione, partiti e leader politici.
L’impostazione è allora in tutto e per tutto quella del cinema americano, cioè un film che ha tra la sue finalità anche quella di spiegare a tutti i drammi storici attraverso una storia individuale, un conflitto piccolo e personale che offre lo spunto di raccontarne uno più grande, tutto attraverso i sentimenti. Sono infatti le pulsioni e le passioni l’argomento del contendere: è giusto che un uomo possa aver insultato un altro perché lo ha maltrattato, ed è giusto averlo colpito con un pugno per un’offesa intollerabile ricevuta? Un tribunale lo può giustificare? E gli altri uomini ci devono passare sopra?
Sembra ad un certo punto che in ballo in L’Insulto non ci sia nemmeno la giustizia (nonostante il profluvio di articoli letti) ma il senso condiviso di cosa sia morale fare, come se questo film tutto aule di tribunale in realtà credesse che esista una legge più importante, quella dei rapporti personali. Anche il processo sembra ad un certo punto solo un modo di far sì che i due contendenti capiscano le proprie storie, costretti ad ascoltare l’altro invece che attaccare e basta. Come se la legge delle aule sia la stessa della politica, tutta transazione, opportunità e decisioni contingenti, mentre l’unica vera sia quella che si può stabilire tra due persone che arrivano a comprendersi a fondo e sanno trovare soddisfazione.
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