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2.9.17

Pin Cushion (id., 2017)
di Deborah Haywood

SETTIMANA DELLA CRITICA
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Se Deborah Haywood usa colori pastello, casette da fiaba dalle pareti rosa, zuccherosi peluche di arredamento e inserti sognanti che sembrano ripresi con la calza è per fare male, non per compiacere. Se mette insieme una figlia adottata e una madre amorevole entrambe simpaticamente strane, non è per ruffianeria da indie americano (il film è britannico) ma per colpire ancora più duro.
Questa favoletta che favola non lo è per davvero ma ama riprendersi e considerarsi tale per acuire il marcio che racconta, è un’educazione sessuale senza ritegno in un mondo senza affetti. E per questo Deborah Haywood riesce a trovare una vena unica come il genere non ha conosciuto: perché non ha nessuna voglia di piacere.

Ci sono una madre e una figlia (adottata) che si muovono in una nuova città piene di buone intenzioni, speranze e dolcezza, ma verranno massacrate da tutti i vicini, i compagni di scuola e dallo scontro con uno stile di vita a loro opposto, che non intende tollerarle.

Così pasticcioso e dolciastro da generare repulsione più che attrazione, il mondo di Pin Cushion finge di essere ideale e desiderabile ma ad ogni inquadratura svela la sua falsità e la sua abietta morale. La trascuratezza con cui questa cineasta al primo lungometraggio, catturata dalla Settimana della Critica al Festival di Venezia, riprende i dolori e le malefatte, il bullismo e il sangue, è una delle affermazioni più serie e potenti di individualismo. Una reazione che il cinema trascura quando si parla di maltrattamenti o di vite difficili e che invece è la più comune: ritrarsi, essere egoisti, pensare a sé.

In Pin Cushion tutti pensano a sé, tutti hanno una propria agenda e nessuno sembra parte di una comunità e addirittura la comunità propriamente detta, quella cittadina, è il luogo di non inclusione maggiore. Del resto Deborah Haywood non riserva più gentilezza alle protagoniste, distruggendo il loro mondo dolce con l’ingresso necessario del sesso, male accettato, poco affrontato, molto tenuto ai margini fino a generare un contrasto e un conflitto che la regista ha il coraggio di portare fino alle estreme conseguenze. Severo ma giusto.

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...ma sono vivo e non ho più paura! by Gabriele Niola is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported License.