CONCORSO
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
Partito con un cinema punk underground che mostrava senza remore o limiti gli esseri umani meno integrati, i margini della società e le difficoltà dell’era tatcheriana, Stephen Frears ha fatto una carriera ammirabile e ora è uno dei cineasti commerciali di punta del Regno Unito, sempre più specializzato nelle grandi ricostruzioni, nei film in costume e in tutto quello che ha a che vedere con la tradizione. Eppure, lo stesso, i suoi film continuano a raccontare tra le righe diverse forme di ribellione all’autorità.
Victoria & Abdul in questo senso è un piccolo caso a sé in cui la ribelle protagonista è la Regina Vittoria.
La vera storia è quella della regina e del suo inserviente indiano, Abdul, arrivato a corte negli ultimi anni di vita della regnante ed entrato subito nelle sue grazie nonostante fosse molto osteggiato dal resto della corte. Nel film Abdul è il simbolo stesso della cultura indiana che l’impero britannico ha schiacciato e dominato che entra nelle stanze del potere, che penetra, parla e contamina la massima autorità. Ma se il fatto è vero, molto più incredibile è come questo regista riesca a far passare la più dura e inflessibile delle regine per un’anticonformista contro il sistema. Perché quel che a Frears interessa è proprio la lotta della regina con il resto delle istituzioni per imporre la propria volontà, per andare contro le regole.
Solo nell’ultimo anno cinema e tv ci hanno mostrato quanto le regine (specie se inglesi) stiano cambiando nell’immaginario collettivo. Sempre più sono raccontate come vittime di un sistema invece che timonieri dello stesso, non la montagna ferma e incrollabile di Kagemusha ma schiave del loro ruolo. The Crown (la serie tv scritta da Peter Morgan) si focalizza proprio sull’impotenza di una giovane Elisabetta II, mostrando perché la monarchia in quanto istituzione sia molto più potente di ogni monarca. E così anche Victoria & Abdul sembra seguire questa strada, paradossalmente la stessa che Frears ha inaugurato con The Queen in cui, sempre Elisabetta II, era qualcosa di separato dalla monarchia, una mosca bianca in un mondo che non le somiglia. Per farlo il film passa attraverso la musica rassicurante e l’uso tipico di Frears di recitazione, volti e corpi comprimari come elementi di arredo, dandogli la stessa importanza (fondamentale in una ricostruzione) di colori, stucchi e mobili. Usa le espressioni dei comprimari per creare il mondo in cui esiste la recitazione dei protagonisti.
Non ci sono dubbi che questa commedia tenera e non certo schizzinosa nel dare allo spettatore quel che più attende, abbia un obiettivo acquietante, che insomma coccoli il pubblico con quel campionario di shock, espressioni di scandalo e imbarazzo a corte per piccole variazioni dal protocollo, tipici della commedia inglese. Ma è anche vero che nessuno come Frears è capace di lavorare dentro la cornice del cinema rassicurante per tradurre e comunicare ad un pubblico il più ampio possibile quelle stesse idee che il cinema punk dei suoi inizi sbatteva in faccia ad un uditorio più ristretto: l’ingresso del nuovo e del diverso nel più chiuso degli ambienti. Anche Victoria & Abdul, tramite il paradosso della regina ribelle, vuole raccontare come le istituzioni abbiano a cuore la propria sopravvivenza e non quella dell’individuo e come la ribellione sia l’unica possibile via d’uscita per l’umanità.
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