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2.1.19

Vice - L'uomo nell'ombra (Vice, 2018)
di Adam McKay

È evidente che Adam McKay ha deciso di dare una sterzata alla sua carriera, di usare tutto quello che ha imparato in 10 anni di cinema e televisione comica, e usarlo per realizzare film molto seri che usino l’umorismo per avvicinare al grande pubblico temi e ragionamenti che solitamente sono più distanti, proprio per la loro complessità e seriosità. Il primo esperimento è stato La grande truffa, in cui cercava di spiegare da dove venisse la crisi economica, quanto fosse stata frutto di un sistema stupido e marcio e quanto fosse evitabile, ora invece affronta il biopic ma sempre con l’idea di spiegare qualcosa a qualcuno che è lì per imparare.

Quello che fa McKay è cinema didattico, che ha informazioni da dare allo spettatore e quando non ne ha si scusa per non averle, che cerca di far quadrare la storia vera e renderla così comprensibile e digeribile. Come tutti i biopic trasforma una persona in un personaggio così che possa star bene nella trama di un film, diversamente degli altri cerca continuamente di distrarre lo spettatore con gag che sono esterne alla storia.
Vice non è una commedia pura, i suoi personaggi non si comportano quasi mai come tali, è il regista, apertamente, che forza il montaggio e la messa in scena per rendere divertente qualcosa messo in scena seriamente, come se McKay avesse ricevuto il materiale girato da qualcun altro e l’avesse rimontato per renderlo comico.

Ed è davvero stupefacente considerato quanto non ragionasse e non dirigesse così nei suoi film comici, in cui invece erano le gag interne alla storia a guidare l’umorismo, con pochissimi espedienti di messa in scena a creare la commedia. È stupefacente considerato quanto queste trovate siano effettivamente divertenti, per quanto fuori posto. Come già in La Grande Scommessa in realtà McKay le usa per coprire le deficienze di una ricostruzione apertamente parziale in cui il protagonista fa di tutto per essere impenetrabile, mentre la spalla (Amy Adams, moglie di Dick Cheney) prende il proscenio da subito, unico vero personaggio ad aprirsi davanti alla macchina da presa.

Cheney per Vice è un simbolo dell’impenetrabilità dello stato e dell’opacità del suo operare. Silenzioso e pauroso, un mostro costruito per essere quanto meno umano possibile a partire dalle cronache che lo dipingono in questa maniera. McKay fa così la più falsa delle biografie a partire da fatti (più o meno) veri, ad uso e consumo del proprio ideale ma con il mantello dell’inchiesta. In tutto questo quel che dovrebbe dare forza al film, l’uso del linguaggio filmico sembra sempre utilizzato per alleggerire e non per veicolare senso, per sollevare il film da un pantano nel quale, se Vice fosse serio, McKay non saprebbe come non affogare.
Così ansioso di non annoiare e non perdere spettatori che immagina annoiati da questa storia Vice è sottomesso a paure e ideali e di fatto, pur dicendo tantissimo su Cheney, non riesce a fare un ritratto umano grande o piccolo che sia, solo un buon film tv vecchio stampo con tante informazioni che viene voglia di verificare.

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