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23.7.17

Uss Indianapolis (id., 2016)
di Mario Van Peebles

C’è l’aria del mini kolossal in USS Indianapolis, un film a budget contenutissimo, che annuncia la sua modesta grandeur già nella prima scena in cui è in atto una contraerea. Vediamo i cannoni della nave, inquadrature in aria di aerei che schivano o vengono colpiti, poi picchiano, distruggono o finiscono in mare. Tutto con effetti speciali a livello della Asylum (quelli di Sharknado).
Tuttavia è evidente che Mario Van Peebles non intenda lasciarsi tarpare le ali da un dettaglio come il denaro e lo stesso concepisca un film di 128 minuti con il passo epico di Michael Bay, un’operona per generali in pensione che canta l’onore dell’esercito celebrando i singoli al posto delle istituzioni, gli uomini e non la politica. Canta le uniformi e le foto, la giovane spensieratezza dei marinai, la leggerezza degli amori lontani, e la gravità delle responsabilità degli ufficiali, sempre integerrimi, l’orrore della guerra e la necessarietà del codice militare.

Insomma in questo film molto sgangherato c’è un desiderio di grandezza che lo rende tenerissimo.
Tutta la prima parte in cui viene impostata la storia attingendo a fatti veri e impensabili licenze romanzesche, in cui veniamo introdotti al contesto (la Uss Indianapolis dovrà portare la bomba atomica nel mare delle Filippine così che possa essere sganciata), poi ai personaggi (adorabili guasconi con mogli o fidanzate che vengono lasciate a casa per questa missione, con anelli, scazzottate e promesse) e infine al conflitto (la politica, i codardi che tramano alle spalle degli uomini d’onore), condisce la vera storia con tempi, discorsi, coincidenze e drammaturgie che gli fanno fare il passo da evento clamoroso a paradigma dell’invincibile spirito statunitense.

C’è però un fortissimo senso di deja vu, un senso del “classico” che somiglia più a blanda riproposizione. Mario Van Peebles sembra non aver compreso quale sia il punto di questa struttura narrativa, come mai tradizionalmente il cinema americano nel mettere in scena la grande storia mostra una storia piccola e particolare, di soldati semplici alle prese con semplici obiettivi nella vita (un matrimonio, un amicizia)? Perché li affianca ai potenti, i grandissimi alle prese con la grande storia (lo sgancio dell’atomica)? Riproponendo gli stanchi stereotipi senza dargli vita, senza crederci fino in fondo ma solo rappresentandoli come fosse un dovere, non vengono mai davvero presentate le due anime del popolo statunitense per come il cinema ama promuoverle: individualismo da una parte e patriottismo dall’altra, il pubblico e il privato. Rimangono solo storielle.

L’attesa quindi è tutta per l’imbarco sulla nave del titolo, cercando di resistere alle risate quando Nicolas Cage, il comandante duro e integerrimo ha un primo piano con degli occhiali a specchio di una misura più piccola rispetto al suo volto. È cinema scalcinatissimo senza rendersene conto e forse proprio per questo si fa così ben volere. Anche quando fa il controcampo del sottomarino giapponese, tutto tradizione, animismo e spiritualismo, nella peggiore stereotipizzazione del nemico, si finisce a volergli bene. Perché in film così patriottici e smaccatamente di parte non è mai il realismo a contare ma come trasformi la verità in mito.

Uss Indianapolis avrà dei momenti non male all’interno della nave, gestiti con una certa confusione ma alimentati da un vero desiderio di fare cinema epico, di mettere in tensione e di trovare il ritmo migliore e poi, arrivato al grande naufragio, sconfinerà definitivamente nella noia, perderà tutto il fiato che aveva e, spompatissimo, dovrà reggere fino ad un finale impensabile ed eastwoodiano, che ricorda un po’ Sully (ma questo film è uscito insieme a quello con Tom Hanks) e riesce nell’unico obiettivo di dimostrare la grandezza di Eastwood e la sua capacità sia di incarnare classico che di sconvolgerlo.

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